E’ il futuro che ci chiama

Ad ogni nuovo anno gli Inventori cercano una strada da percorrere.

È dapprima toccato a Corpo che sono e corpo che ho, un avventurarsi nei diversi aspetti della “corporeità”, appartenenti tanto alla struttura organica, alla “fisicità”, quanto alla trascendenza, al “mistero”, della persona.

Nel secondo anno abbiamo affrontato lo Stare dentro ai tempi nuovi, il tema cioè della tumultuosa trasformazione della nostra società occidentale, caratterizzata da un “conflitto” tra la tradizione e il presente che pone in crisi ogni verità e che rischia di portare la persona alla perdita di un “centro” cui riferirsi.

In continuità con un percorso già tracciato, per l’anno 2012 la scelta è caduta sulla strada È il futuro che ci chiama, prendendo spunto da un testo di Giovanni Vannucci:

Il tempo vitale, il tempo vissuto, non parte dal passato verso il presente ma parte dal futuro verso il presente. Il seme che cresce nei nostri campi perché sviluppa ora le sue radici? Perché c’è il tempo vivente che lo chiama dal futuro, e il grano che cresce “sogna” la figura, la spiga, che un giorno riuscirà a raggiungere nella sua maturazione. Il presente è una risposta nella vita concreta, nel reale, agli appelli che ci vengono dal futuro.

Vuole essere un richiamo alla speranza, virtù innanzitutto saldamente umana, speranza in un futuro mondo migliore che non può costruirsi su passive ireniche attese per le generazioni a venire ma esige una risoluta presa di coscienza ed un mettersi all’opera da parte delle generazioni presenti, cioè da noi che ora abitiamo questo mondo.

Scrive Ermes Ronchi (Il futuro ha un cuore di tenda, Romena, Pratovecchio 2010):

Ci sono due modi per leggere il tempo: dal passato verso il presente, oppure dal futuro verso il presente. Il tempo vitale parte dal futuro. Il presente non è che una risposta agli appelli che ci vengono dal futuro. L’importanza data al futuro rivela la vitalità di una persona, di una famiglia, di una comunità. L’energia vitale, la statura di un gruppo è direttamente proporzionale all’importanza che il futuro e i progetti hanno in quel gruppo […] Il futuro degli inventori si nutre di desiderio, di passione e di poesia, anche solo di gocce: «Il fiume comincia con la prima goccia d’acqua, l’amore con il primo sguardo, la notte con la prima stella, la primavera con il primo fiore» scrive don Primo Mazzolari […] Il futuro che ci chiama ha un abito da sposa. Anche se il presente indossa un abito di stracci […] L’uomo e la donna di fede non si scandalizzano della sproporzione tra il presente e il futuro, ma lo sanno vivere come un inizio. La speranza è il nome che noi diamo alla sproporzione tra quanto ci è promesso e quanto abbiamo fra le mani”.

Sia questo lo spirito che anima la nostra ricerca nell’anno che viene… è un augurio che Inventori di strade rivolge comunque a tutti!

Agli amici Inventori di Strade

Magi - Statue del PresepioSanto Natale 2011

Quest’anno, pensando al Natale, mi è nato in testa un piccolo racconto.

È il mio augurio per questi giorni di festa e per l’anno che viene.

Viviamo tempi difficili, faticosi, ci sembra di non avere orizzonti e promesse. Facile scoraggiarsi, abbattersi, sentire i giorni come un peso da sopportare, non riuscire a vedere la luce oltre la gola stretta e scura che stiamo attraversando.

Mi sembra sia giusto augurare sogni, in questa situazione, sogni di bellezza e di luce, di bene e di aria pulita, di giorni sereni.

Ci capiterà di scoprire, se non rinunceremo a darci da fare per realizzarli, che la bellezza e il bene molto spesso si nascondono, come la luce nelle notti senza luna, ma ci sono, non spariscono, sono vicino a noi, restano un dono che, anche piccolo come una brace sotto la cenere, come una fiammella troppo sola per fare fuoco, ciascuno può ritrovare, riaccendere e regalare a sua volta.

In amicizia.

Giovanni Bastianini

Gaspare

Non ci siamo mai incontrati, ma voi conoscete il mio nome. Sono Gaspare, uno di quelli che il giorno dell’Epifania arrivano da Gesù Bambino per portargli in dono oro, incenso e mirra.

La mirra, purtroppo, è l’unica cosa che mi corrisponda nella storia che si è diffusa e che anche voi avete conosciuto: è vero, ho regalato la mia scorta di mirra a Gesù, meglio, a sua madre, quando arrivai a Betlemme. Per il resto, devo dir grazie ai miti, alle storie passate di bocca in bocca, ai cantori di racconti che tanto meno sapevano dei fatti che narravano tanti più particolari aggiungevano per intrigare il loro pubblico, Dio li benedica. Perché io non sono mai stato Re, non ho mai avuto un regno mio e anche il “magio” lo sono diventato solo per amicizia, non come Melchiorre e Baldassarre che Re e Magi lo erano davvero. Erano loro a tenermi con sé, a volermi quando si trovavano la notte a guardare il cielo, a scrutare le stelle, a interrogarsi sui grandi misteri del mondo con naso per aria e lo sguardo fisso. Loro sì, che erano astronomi e astrologi seri, addentro alle cose divine, capaci di scovare nell’aria ciò che non vedevano sulla terra, profondi indagatori del mistero, che secondo loro era scritto lassù, disegnato da fili invisibili che collegavano, secondo disegni non facili da capire subito, alcune stelle ad alcune altre, scelte perché più luminose, a volte, altre volte perché per vicinanza parevano star bene insieme a dar forma al destino e ai sogni dell’uomo.

Mi volevano con loro perché… proprio questo è il punto, perché… beh, lo devo dire, dopo tanto tempo non faccio danno a svelare un segreto, perché i Re Magi facevano una gran fatica a sognare i sogni degli uomini, delle donne, dei bambini. Sì, bisognava spiegarglielo, cosa sogna un uomo, cosa sognano un bambino, una donna, un vecchio.

Loro sapevano di divinità e di destini, sapevano tutto ciò che allora si poteva sapere sui mondi che sovrastano il nostro e lo dirigono, ma mettere insieme destini e vite di uomini normali, concreti, uomini e donne di tutti i giorni, quelli che si incontrano molto più spesso di giorno che di notte, mettere insieme grandi disegni divini e storie di persone, di famiglie, di popoli, sì, a far questo facevano molta fatica. Leggevano tra le stelle ciò che sarebbe accaduto dei regni e dei potenti, scovavano simpatie divine e antipatie, decifravano, tracciando rotte di stelle, percorsi e strade possibili per chi regnava sui popoli, ma lì si fermavano, il cielo diceva ben poco delle vite quotidiane, delle storie di amori, passioni, sofferenze, solitudini. Non c’è nessuna costellazione in cielo con una stella sola, per forza loro non sapevano neppure che, sulla terra, la solitudine esiste. Loro erano sempre insieme a discutere, a scrutare, a decifrare, a confrontarsi, a tracciare segni e attribuire significati. C’erano, con loro due, altri magi, alcuni più vecchi, altri meno portati a star svegli la notte, ma tutti molto pronti a recarsi a corte di giorno, veloci di lingua, abili nel mescolare parole seducenti e interessanti anche se, alla fine, un po’ molto vuote di senso. Imparavano qualcosa da Melchiorre e Baldassarre, stando con loro qualche ora a sfidare il freddo della notte, poi si ritiravano con la scusa dell’età, o della famiglia, per poi arrivare per primi a corte a dire la loro sulle questioni del regno. Il loro sapere non serviva granché, il regno non prosperò per le loro sentenze, ma nessuno osava confessare di aver capito poco dalle loro parole. Erano solenni, ieratici, dicevano parole importanti e i dignitari e la corte intera alla fine si accontentavano della loro imponente e colorita presenza, dava lustro al potere senza mai metterlo in discussione. Del resto, si sapeva anche ai miei tempi, le guerre le hanno sempre vinte i soldati che le hanno combattute, non gli aruspici e gli indovini, che alla fine ogni volta proferivano avvertimenti stranamente allineati con le intenzioni di chi comandava, salvo aggiungere, dopo lunghe pause, che… chi voleva vincere doveva combattere con più forza, più determinazione, più coraggio degli altri. Come se cotanta saggezza fosse costata lunghe ed attente esplorazioni dei cieli! Baldassarre e Melchiorre sapevano di queste vicende di corte, del ruolo pubblico così importante dei loro colleghi così poco propensi alla veglia ma in compenso prontissimi a riscuotere onori e prestigio con la farina di altri, ma lasciavano correre. Anzi forse erano quasi grati agli ambiziosi che contrabbandavano davanti ai potenti ciò che pensavano di aver capito dagli studi e dalle elucubrazioni dei due Magi rimasti nella memoria del mondo, perché, grazie alla loro piccola furbizia, alla loro ambizione, alla loro voglia di visibilità, nessuno veniva a disturbare i miei due amici lasciandoli liberi di studiare e proseguire le loro ricerche. A corte, pochi impegni, perché quando Baldassarre e Melchiorre parlavano dicevano ciò che dalle stelle avevano capito, senza preoccuparsi di come le loro parole sarebbero state accolte. Di solito, non erano le più gradite. Era così, allora.

Ma devo raccontarvi con onestà, adesso, perché io, senza aver né titoli, né sovranità, né sapienza pari alla loro, sono diventato il terzo tra i Re Magi rimasti nella memoria degli uomini. Il perché è presto detto: io ero diventato per Baldassarre e Melchiorre il loro sguardo sul mondo e sulle persone in carne ed ossa. Loro guardavano il cielo per ore, io ero capace di guardare negli occhi le persone che incontravo, loro interrogavano le stelle, io non mi stancavo di stare ad ascoltare la gente che incontravo al mercato, per via, sotto un albero a cercar refrigerio dalla calura del giorno, al pozzo. Loro sapevano di disegni divini, io sapevo di storie di uomini, loro conoscevano i destini, io le speranze, i desideri, le sofferenze di quanti incontravo. Loro si affidavano alle profezie e ai vaticini, io avevo preso confidenza con le erbe, scoprendo un po’ alla volta il loro potere nel dare sollievo al dolore, di aiutare a guarire chi stava male nel corpo e nello spirito.

Li incontrai la prima volta proprio grazie alle mie erbe, una volta che Baldassarre, il più anziano, per essersi perso nelle sue osservazioni notturne troppo poco vestito era costretto a letto, raffreddato e tossicchioso, con le ossa rotte e i dolori reumatici che non lo lasciavano neppure respirare. Lo curai per diversi giorni, accompagnando i suoi miglioramenti con una quantità crescente di risposte che dovevo dare alle sue domande. Mi chiedeva come il Fato entrasse nella vita della gente normale, se i grandi disegni degli astri avevano spazio nei giorni delle persone normali, semplici, che lui non aveva mai incontrato, se si escludeva la piccola cerchia dei servi, delle ancelle e dei dignitari che lo accompagnavano. Io rispondevo come ero capace, sentendomi in soggezione. Gli dissi che il destino scritto nelle stelle non lo conosce nessuno, che nessuno ha un libro dove leggere cosa deve fare, come deve vivere, come può arrivare a sentirsi sereno, in pace con sé e con gli altri. Gli dissi proprio questo, gli parlai di pace, di serenità. Lui mi guardò stupito, obbiettando che non erano la serenità e la pace gli argomenti trattati dal destino, dai disegni degli astri, dalle antiche profezie, nelle quali si parla di regni, di guerre, di vittorie, di gloria, di favori degli dei, non certo di serenità e di pace.

Non so perché, ma gli dissi a quel punto che forse, in tutte le notti che aveva speso per leggere i cieli aveva trovato messaggi importanti per qualche potente, ma gli erano sfuggiti di sicuro i messaggi che potevano interessare tutti gli uomini. Come fai a saperlo, mi disse? L’ho sognato, risposi, e so che anche nei sogni di tutti coloro che ho incontrato, anche di quelli che stavano peggio, anche dei vecchi che chiedevano solo conforto e compagnia prima dell’ultimo viaggio c’è un gran desiderio di speranza e di consolazione, c’è la voglia sempre viva, anche nell’ultima notte, di una promessa di serenità e di pace.

Non disse più nulla, il vecchio Re Magio, ma nei tempi successivi mi mandò a chiamare molte volte la notte, per avermi vicino, a portata di voce, mentre scrutava le stelle, quando non era impegnato a dare lezioni ai giovani studenti che aspiravano a condividere il suo sapere per diventare Magi a loro volta. Senza distogliere lo sguardo dal cielo, mi interrogava, mi faceva domande, mi chiedeva dei sentimenti degli uomini, dei loro impulsi di bene e di male, dei desideri delle ragazze, dei giochi dei bambini. Mi chiedeva cosa c’era nei loro sguardi, nel fondo degli occhi di chi ama, di chi patisce, di chi odia, di chi ha paura, di chi è felice e di chi si è perso e si chiude in se stesso, di chi è tranquillo abbastanza per essere forte e di chi è prigioniero della sua debolezza che trasforma in boria, in protervia, in cattiveria. Ogni tanto, citava un mito, una profezia, un qualche racconto delle storie degli dei e mi chiedeva quanta felicità mi venisse dal conoscere fatti divini che fino ad allora non avevo mai udito. Mi era facile, fin troppo mi pareva, dimostrargli onestamente il mio stupore e la mia sorpresa, ed anche la mia gratitudine per le perle di conoscenza che mi affidava. Ma quanto alla felicità, con la stessa franchezza gli dicevo che essa era molto più vicina, per me, quando leggevo nello sguardo di un malato il guizzo di vita di un inizio di guarigione dovuto certo alla benevolenza degli dei ma anche alle mie cure a base di erbe e di estratti. Queste nottate con Baldassarre mi piacquero molto, le sue domande, la sua considerazione per me mi parvero un balsamo alle tante ferite che avevo ricevuto, alle tante chiacchiere fatte su di me, alle mille malignità che sapevo esser raccontate su di me per la mia scienza della cura con le erbe così banale e concreta da non essere niente di serio per molti. Anche quelli che curavo, spesso, se non vedevano risultati immediati, cominciavano a dirmene di tutti i colori, a insultarmi, ciarlatano, imbroglione, profittatore, stregone incapace e pericoloso. Io mettevo a disposizione ciò che scoprivo e che sperimentavo su di me. Quello che mi faceva star bene, lo offrivo anche agli altri. Moltissimi me ne furono grati, molti, se avessero potuto, mi avrebbero fatto rinchiudere e condannare. Sentivo accumularsi, dentro di me, una sorta di sordo rancore, un peso di desideri negativi, sentivo risvegliarsi i miei istinti peggiori, quelli che si scatenano dentro gli uomini quando si sentono trattati ingiustamente. Mi sorprendevo a fare confronti, a guardare non con invidia, ma con astio, quelli che, con meno impegno e fatica sembravano portare a casa onori, benessere, stima e ricchezze.

Baldassarre mi faceva star bene, prendendo sul serio i miei pensieri e la mia conoscenza degli uomini, quando ero con lui sentivo che il mio rancore, un po’ alla volta, scemava, lasciandomi rivedere il mondo, e soprattutto le persone, in modo più chiaro, più limpido, oserei dire più vero. Anche Melchiorre, nei mesi successivi, si unì alle nostre conversazioni, o meglio allo strano dialogo fatto di domande da parte dei Magi e di risposte da parte mia. Le notti divennero notti di veglia, passate a sbrigare in qualche ora la fame di notizie da spendere a corte dei Magi più pigri, per poi cambiare registro subito dopo il loro ritirarsi. Quando restavamo noi tre, iniziavano le domande, con me a parlare a due illustri sapienti che non smettevano mai di guardar per aria senza degnarmi di uno sguardo, se non quando, per stanchezza e per sonno, smettevo di rispondere al loro interrogare. Avevo preso l’abitudine di bruciare mirra, quando ero coi Magi, perché il profumo che si alzava dal braciere sembrava aiutarmi ad essere più lucido, più pronto, più profondo. Anche i Magi mostrarono di gradire, dicevano che il profumo li aiutava ad essere più pronti a cogliere i significati scritti nel cielo, che solo chi ha confidenza con le cose dello spirito riesce a cogliere ed interpretare.

Una notte, che ricordo in ogni dettaglio – saprei descrivere la posizione esatta di ogni costellazione, saprei riconoscere il rumore del vento, saprei dire ogni voce ed ogni suono di sentinelle ed animali che perforò il silenzio, quando accadde – Baldassarre e Melchiorre prima si chiamarono a vicenda, indicando una porzione di cielo verso sud, poi confabularono tra loro, poi tornarono ad osservare stando immobili per un tempo che mi parve interminabile, fino a che alcune costellazioni, che avevo imparato a riconoscere, scomparvero all’orizzonte mentre altre, dalla parte opposta, si affacciavano alla vista. Alla fine si scambiarono uno sguardo, si abbracciarono a lungo e abbracciarono me, quasi tremando, piangendo di felicità, sospirando, sfregando la barba sulle mie spalle girando spesso la testa verso il punto di cielo che li aveva incantati. Smaltita un poco la concitazione, fu Melchiorre a svelarmi il segreto di quella imprevista e inusuale esplosione di emozioni: a forza di ascoltare le mie risposte e i miei racconti, avevano cominciato da tempo ad interrogare il cielo rivolgendo alle stelle le mie domande sulla pace, la serenità, la gioia degli uomini e quella notte avevano trovato un segno, una stella più mobile delle altre, strana, mai vista prima, che di sicuro doveva significare una risposta, una direzione di ricerca. Le notti successive furono concitate e straordinarie, i due Re sembravano posseduti da una forza davvero divina, stavano ore ed ore di notte a controllare il cielo cercando riscontri puntuali delle letture fatte durante il giorno e di giorno a raccogliere testi e documenti che illuminassero e dessero senso a ciò che la notte avevano visto.

Ai loro occhi, i disegni delle stelle prendevano forma, diventavano messaggio ed invito. Ne ricavarono che c’era un viaggio da fare, per andare incontro ad un bambino che sarebbe stato Dio e uomo, avrebbe ricongiunto la terra e il cielo, avrebbe dato sostanza di terra ai sogni e leggerezza di sogno alla vita degli uomini. Si doveva andare ad incontrarlo, seguendo un percorso che le profezie e gli astri avrebbero disegnato con chiarezza, a partire da quattro lune più in là. Nel frattempo, bisognava organizzare una carovana, organizzarsi per un viaggio di durata incerta, probabilmente lungo, portandosi dietro ciò che serviva per vivere a un bel gruppo di persone, le loro famiglie, i loro servi, alcuni tra i loro studenti che avevano chiesto di poterli seguire. Affidarono a me i preparativi, mentre loro si riunirono in segreto per decidere come presentarsi di fronte al bambino autore di tanta meraviglia cosmica e terrena. Sarebbe stato un potente, un Dio fatto uomo e un uomo con le sembianze di Dio. Avrebbero scoperto un luogo di eccezionale bellezza, l’unico degno di ospitare sulla terra un evento unico come l’incontro tra Dio e l’umanità. Lì avrebbero potuto presentarsi e ricevere illuminazione. Scelsero gli abiti più eleganti che avevano e doni adeguati alla circostanza: oro, per onorarne la potenza, ed incenso, per rendere omaggio alla sua divinità.

Quando me lo dissero, rimasi perplesso, stupito della loro sicurezza. Abituato ai loro entusiasmi conoscitivi, alla loro fiducia nelle stelle e negli astri, alla loro profonda convinzione che niente potesse succedere senza che una traccia celeste ne portasse annuncio e memoria, cercai di cogliere qualche particolare in più, senza arrampicarmi con forze che non erano mie sulle loro convinzioni, ma senza rinunciare a farmi un’idea sul realismo delle loro aspettative. Provai, l’ultima notte che passammo nel loro palazzo, a chiedere qualcosa di più sulla destinazione del viaggio e su ciò che si aspettavano di trovare. Ne ebbi in cambio gesti ampi delle braccia, un dito puntato verso il cielo, una mezza risposta sulla meta, “Ad Ovest, certamente”, ma poco di più. Il giorno dopo ci mettemmo in marcia. Portai con me quel poco che avevo, una tunica pulita da indossare all’arrivo, la sacca con le erbe, gli infusi, gli estratti vegetali che, pensavo, sarebbero serviti in quell’avventura senza un preciso programma, che pareva più un esodo che un viaggio. Misi in un baule anche una scorta delle sostanze che più mi parvero utili, piccola precauzione di fronte a tanta incertezza. Almeno mia, visto che Melchiorre e Baldassarre sembravano ringiovaniti di vent’anni, sicuri nei movimenti, sempre restii a fermarsi per montare il campo e riposare nel giorno, visto che la mappa del viaggio era conservata nel cielo e tutta la carovana era appesa alle notti stellate. Fu un viaggio lungo, faticoso, a tratti spossante. I Re Magi avevano umore eccellente nelle notti pulite e terse, sembravano prigionieri ansiosi di liberazione quando le nuvole impedivano di seguire il tracciato che solo di notte appariva loro chiaro ed evidente. Ci fermammo più volte, per il tempo e la stagione inclemente, ma bastava che le nuvole si aprissero anche solo di poco, che qualche stella facesse capolino per provocare immediate partenze, quasi vi fossero ritardi spaventosi da smaltire riducendo le soste e il riposo. Attraversammo pianure fertili, guadammo fiumi, ci trovammo a navigare tra le pietre e la sabbia di almeno due deserti, seguendo il ritmo altalenante dei cammelli e quello dei flauti e dei tamburi dei servi che con gli strumenti e i canti della nostra antica tradizione cercavano di restituire baldanza e vigoria all’andare quando il paesaggio che attraversavamo si ripresentava, ad ogni ripartenza, troppo simile a quello dei giorni precedenti.
Attraversammo regni diversi, mandando ambascerie per assicurarci protezione e sicurezza attraversando le terre di popoli di cui avevo sentito parlare ma non avevo mai incontrato. Ad un certo punto del viaggio, divennero rari gli incontri con persone in grado di comunicare con noi. I Re, ogni tanto, nei templi e presso le corti che ci ospitarono, trovavano qualcuno con cui scambiare notizie, usando lingue diverse ma riferimenti a testi sacri e tradizioni conosciute da entrambi. Ma divennero sempre più rari, gli interlocutori possibili. Tra i servi, ogni tanto qualcuno d’improvviso sorrideva, riconoscendo la parlata di persone incontrate per via, riscoprendo dopo anni e anni di lontananza e di separazione di ricordare parole e frasi ascoltate da bambini, quando ancora la sorte non li aveva condotti a servizio dei Re. Il fortunato di turno diventava l’interprete dell’intera carovana, provvedeva a negoziare gli acquisti di ciò che serviva per continuare il viaggio e a spiegare che quello strano gruppo di persone in viaggio non aveva cattive intenzioni, anzi era in cammino verso un misterioso incontro dal quale dipendeva il bene dell’umanità. Diventava lui il capo fila del gruppo, incaricato di aiutare il nostro attraversamento nel breve tempo necessario a lasciarci alle spalle anche le terre del suo ritrovato popolo, per poi fermarsi a salutare festoso la carovana, grato della libertà che i Re regolarmente concedevano a chi scopriva di essere ritornato tra la sua gente.

Quando arrivammo tra i monti di Giuda accadde un disastro. Le alte montagne della regione stringevano il cielo, come se volessero rendere illeggibile una parte essenziale della mappa che i Re stavano con fatica e puntiglio seguendo. I riferimenti celesti che ci avevano portato fin lì parvero scomparire, i Magi passarono notti per ricostruire a memoria i segni del cielo che avrebbero permesso alla carovana di avanzare, ma parevano sconfitti dalla mancanza di spicchi di cielo a loro indispensabili per orientarsi e seguire il misterioso tracciato che doveva portarci alla meta. Il clima della carovana divenne tetro, ci si muoveva in silenzio, nessuno aveva l’ardire di parlare, tanto meno di far musica o cantare, si sentiva soltanto il rumore dei passi delle bestie e degli uomini, diventato lento, affaticato, incerto. I Magi, senza uno scampolo di segno utile dal cielo, facevano fatica ad alzare la testa, camminavano con lo sguardo alle pietre del suolo. Arrivammo a fermarci di notte e a viaggiare di giorno. L’animazione, la festa, l’entusiasmo, le frenesia dell’incontro, l’attesa della meraviglia e del disvelamento del mistero inseguito in un percorso così lungo: tutto scomparso, azzerato, spento, i pellegrini del mistero, i cercatori dell’uomo Dio e del Dio uomo trasformati in un gruppo di dispersi, di camminatori senza direzione, di profughi di un sogno interrotto. Si giunse così, con l’amaro in bocca, fino a Gerusalemme, la grande città, innalzata sulle colline, spendente d’ori e di luci. Lì, di nuovo, i Re incontrarono il signore del posto e la sua corte, dove non c’erano astrologi in servizio ma esperti di profezie e di scritture. Parlando con loro, con le incertezze di un dialogo reso possibile da uno degli ultimi servi rimasti con noi – un pastore, uno non certo abituato a maneggiare e rendere, in due lingue diverse, il linguaggio rarefatto e difficile della profezia e della conoscenza dei fatti divini – vennero fuori antiche profezie di quel popolo, che parlavano di un bambino divino, di una maternità inaspettata, dell’attesa di secoli e secoli della sua nascita, ma niente che potesse far pensare ad un evento annunciato da una carta del cielo, da un muoversi di astri, di stelle in viaggio nello spazio siderale per guidare gli uomini sulle tracce del bimbo miracoloso.

Stanco, sconsolato, perplesso e per di più ormai a corto di medicamenti e di erbe, per il gran daffare avuto in giorni e giorni di viaggio a curare, ad aiutare, a sostenere i viaggiatori e lenire le tante infermità che un lungo viaggio comporta, mentre ancora una volta i Re si incontravano con i saggi del tempio e della corte, mi rifugiai in una stalla dove il caldo delle bestie e la morbidezza del fieno mi promettevano una notte più tranquilla di altre. Tanto, vegliando, non avrei capito niente di ciò che i Re miei amici e i loro interlocutori stavo discutendo animatamente. Mi addormentai, sperando che il riposo della notte avesse qualche suggerimento da darmi. Sognai, quella volta, il più bel sogno della mia vita. Quando mi svegliai, di primo mattino, sapevo, per una volta sapevo, avevo chiara in mente la visione di ciò che mi aveva portato fin lì. Corsi a cercare Baldassarre e Melchiorre, che avevano a fatica, dopo ore di confronto e discussione con i saggi del popolo ebreo, carpito il nome di un villaggio, più avanti, sui monti, Betlemme. Dissi loro di ripartire al più presto e di preparasi a sorprese incredibili, dissi loro che eravamo vicini alla meta, che avremmo ritrovato le carte del cielo dopo aver scavalcato la prima montagna dopo la grande città, che dovevano prepararsi ad un incontro che mai nessuna profezia, nessun segno di stelle aveva mai neanche potuto immaginare. Mi guardarono stupiti e sorpresi e fu soltanto la lunga amicizia che si era stabilita tra noi che li condusse ad aver fiducia, ad ordinare la partenza, a riprendere il viaggio, con me davanti, esperto di erbe e loro, esperti di cielo, di cose divine e di destini, dietro a seguire i miei passi quasi di corsa, per quanta ne era permessa da tanta gente ormai stanca e dagli animali che di stanchezza e di patimento avevano avuto dosi altrettanto abbondanti.

Accadde come avevo sognato, il cielo si aprì agli occhi dei Re dopo che superammo la prima alta collina fuori dalla grande città, d’improvviso la carovana ritrovò lo slancio e la frenesia dei primi giorni del nostro andare. Arrivammo al tramonto nel villaggio di Betlemme, immediatamente circondati da tutti gli abitanti, che senza bisogno di chiedere e dire, quasi ci aspettassero da tempo, ci portarono, chi correndo, chi incitandoci, chi camminando con noi davanti alla porta di una minuscola casa. I Re si fermarono nella via, giusto il tempo per indossare i vestiti della festa, le insegne del loro potere e del loro sapere ed estrarre dai loro scrigni i doni che fin lì avevano portato. Fino a quel punto, se erano stupiti della normalità, della assoluta modestia, direi della povertà del posto dove eravamo arrivati, non avevano dato nessun segno di confondimento o di sorpresa, ma quando tra le voci concitate dei nostri accompagnatori venne aperta la porta e si affacciò un uomo ad incontrare i nuovi arrivati, facendosi da parte sulla soglia lasciando intravedere tra le mura delle minuscola casa la sagoma di una donna con un bimbo in braccio, rimasero interdetti e fermi sulla via, spaesati, del tutto insicuri. Mi venne da sorridere, facendo fatica a trattenermi dal trasformare in riso schietto il buonumore che mi aveva invaso. Ricordai che aspettavano di trovarsi in un luogo di bellezza sublime, di solennità, di fasto adeguato all’incontro con Dio. Certo lì, in quella sera, a Betlemme, l’ambiente era all’opposto delle loro attese e aspettative. Mi feci avanti, ricordando ai Magi miei amici che li avevo avvisati di prepararsi a qualcosa di inaudito, di difficilmente credibile, di stupefacente: gli astri, il cielo, le stelle, le carte consultate, la sapienza conosciuta erano serviti a portare i Re davanti ad un bimbo, ad una madre giovanissima e bellissima, a un padre che sulla porta di una casa più che povera, misera, era chiaramente a disagio di fronte alla sontuosità delle vesti e alla solennità dei visitatori.

Lì, proprio lì, stava il mistero indagato nelle notti insonni, studiato, cercato e poi inseguito in un viaggio che pareva non dovesse mai finire: un bimbo, una madre, un padre, una famiglia poverissima, dentro una casa di fortuna, nel grande silenzio creato dall’imbarazzo dei visitatori e dalla soggezione degli abitanti del villaggio. Per un momento dubitai anch’io, forte fino a quel punto soltanto di un sogno. Accennai al padre la richiesta di entrare, ad un suo gesto varcai la soglia della stanza e mi avvicinai alla madre e al bambino e li guardai. No, più esattamente io alzai solo lo sguardo, ma furono la madre e il bimbo a guardare me. Mi sentii come trapassato da quegli sguardi, dalla loro intensità. Mi sentii osservato, quasi rovistato nel profondo, e subito dopo mi sentii come a casa mia, tra persone che avevo conosciuto da sempre, che da sempre sembravano aspettarmi, una madre giovanissima e un bimbo di pochi giorni che avevano rotto il confine tra il tempo di ogni giorno e il sempre dei sogni e dei desideri degli uomini, per dirmi sei arrivato, questa è la fine del viaggio. Furono il mio sospiro e la mia commozione a dare certezza anche ai Re Magi, che, senza aver capito, senza darsi il tempo di studiare e scrutare il cielo a cercare sicurezze divine, entrarono dopo di me e deposero ai piedi del bimbo e di sua madre i loro doni di oro e di incenso. Myriam, la giovane madre si chiamava così, ringraziò dei doni con un sorriso bellissimo, senza dire parola. Joseph, il padre, li prese e li mise da parte, il bimbo si mise a fissare i Re chinatisi davanti a lui, finché sia Baldassarre che Melchiorre parvero capire all’improvviso che davvero lì li aveva portati tutto il loro vegliare, studiare, interrogare le stelle, davanti ad un bimbo che non pareva Dio, ad un Dio che davvero sembrava in tutto e per tutto soltanto un bambino. Solo gli occhi, soltanto gli occhi dicevano di lui qualcosa di più, dicevano di un mistero appena iniziato, di una vita che sarebbe stata densa, colma, stipata di vita. Ma, pensai tra me e me, non poteva che nascere così, da un bambino, lo svelamento del mistero di Dio e dell’uomo, dallo sguardo di una madre, dalla vigile presenza di un padre. Se i sapienti e i saggi erano arrivati ad intuire che un bimbo avrebbe ridisegnato la storia degli uomini e la storia di Dio, ascoltando le voci di profeti e il silenzio del deserto, ebbene, quel giorno, quel bimbo erano la conferma che il loro ascolto e la loro ricerca erano arrivati vicini alla verità. Il mistero di Dio non poteva essere altrove, nessun tempio, nessuna cerimonia, nessun luogo sacro, nessun segno celeste avrebbe potuto contenerlo più dello sguardo di quel bimbo in braccio a sua madre in una minuscola casa di Betlemme in Giudea. Quasi incantato, mi avvicinai di nuovo, presi dalla mia bisaccia qualche grano di mirra e lo offrii alla madre. Mi parve di capire che Myriam non sapeva cosa fossero. Li gettai sul piccolo fuoco che faticava a tener fuori il freddo della notte ormai calata sul villaggio, sulla casa, su di noi. Si sentì subito il profumo inconfondibile della resina che avevo portato con me, il bimbo allora sorrise e mi guardò di nuovo, allungando la manina verso la mia bisaccia. Mi sfilai la bisaccia e la posai ai piedi di Myriam, che, sorridendomi ancora una volta, mi fece capire che aveva apprezzato il mio gesto, lo aveva capito, che aveva imparato tutto su di me, che avevo un posto nel suo cuore e in quello del bambino. Mi sentii come svuotato di me e pieno dell’affetto che veniva da madre e figlio, un affetto, una benevolenza, un amore che mi riempiva, rendendomi sicuro della rivelazione che mi era stata donata in quel posto inaspettato e così poco adatto, secondo i criteri di noi uomini, a contenere segreti che abbracciano la vita di ciascuno. Il mio dono era adatto, forse dei tre il più adatto, ad accompagnare la storia di un uomo che doveva crescere ed affrontare la vita, svelando a sé e al mondo il mistero della pace, della gioia e delle serenità, passando attraverso le pene di tutti, pagando di persona, come tutti, il prezzo esoso che è chiesto a chi è vero. Myriam, Maria come la chiamiamo oggi, sono sicuro che usò per sé e per suo figlio la mirra, imparando ad usarla per curare il suo bimbo Gesù e se stessa e, come dicono i saggi, aiutarsi a conservare chiara e netta, bruciandone qualche grano per sprigionare profumo, la memoria dei fatti dello spirito e dell’anima, dell’amore e dei buoni pensieri, del perdono ricevuto e donato, del mistero che sembra lontano ed è a portata di tutti. Hanno detto, dopo, che il mio dono era simbolo di sofferenza e di morte. No, non era un simbolo, era soltanto il dono di ciò che avevo, che conoscevo essere utile a vivere, era un dono che avrebbe lenito la sofferenza anche di Dio, visto che aveva deciso di essere uomo.

Pensai, uscendo da quella casa alleggerito di ogni rancore, che mai avrei provato una gioia più grande, che mai mi sarei ritrovato più vicino alla verità, che mai più avrei guardato Dio negli occhi.

Mi sbagliavo: ho ritrovato lo sguardo di Dio in tutti gli occhi di bambino che ho fissato, in tutti gli occhi delle madri cui ho sorriso, di tutti gli uomini che mi hanno accettato nel loro sguardo dopo essersi accertati che, nel mio, non c’era astio ma attenzione e apertura.

Per questo regalo mirra anche a voi, che come me non siete mai stati né Re né Magi, ma che cercando pace, serenità e gioia, per voi e per gli altri che incontrate, come me potete diventarlo, guardando a voi, agli altri, al futuro con speranza, con disponibilità, con attenzione e, se vi riesce, qualche volta con simpatia, senza paura ma con stupore, con desiderio di festa e di bene. In poche parole, con gli occhi di Dio.

Vostro,

Gaspare.

Natale 2011

Natale 2011 - Vignetta

Tutto il mistero di Gesù Redentore – nascita passione-morte risurrezione – trova motivo nell’“ut unum sint”, “perché siano una cosa sola”. Così l’Incarnazione è compresa e realizzata nell’amore dei fratelli. Altrimenti non si accetta la venuta di Dio-Amore, perché il comandamento della carità è unico e con la stessa virtù con cui amiamo i fratelli amiamo Dio.

L’augurio di Inventori di strade per il Natale che viene è che sappiamo farci tutti più accoglienti nei confronti degli altri, vincendo ogni interna resistenza che possa nascere dalle nostre pretese diversità o esclusività. Con le parole di Benedetto XVI nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2012:

«[…] La pace non è soltanto dono da ricevere, bensì anche opera da costruire. Per essere veramente operatori di pace, dobbiamo educarci alla compassione, alla solidarietà, alla collaborazione, alla fraternità, essere attivi all’interno della comunità e vigili nel destare le coscienze sulle questioni nazionali ed internazionali e sull’importanza di ricercare adeguate modalità di ridistribuzione della ricchezza, di promozione della crescita, di cooperazione allo sviluppo e di risoluzione dei conflitti […]

La pace per tutti nasce dalla giustizia di ciascuno e nessuno può eludere questo impegno essenziale di promuovere la giustizia, secondo le proprie competenze e responsabilità. Invito in particolare i giovani, che hanno sempre viva la tensione verso gli ideali, ad avere la pazienza e la tenacia di ricercare la giustizia e la pace, di coltivare il gusto per ciò che è giusto e vero, anche quando ciò può comportare sacrificio e andare controcorrente […]».

Przemyslaw Kwiatkowski in sintesi

Di grande interesse, e da parte di Inventori di strade un degno modo di celebrare nell’imminenza del suo 30° anniversario la Familiaris consortio di Giovanni Paolo II, l’incontro di sabato 5 novembre con Przemysław Kwiatkowski.

Questo giovane sacerdote polacco, docente al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia in Roma e profondo ed appassionato conoscitore della persona di Karol Wojtyła, ha centrato il suo intervento, con ricchezza di particolari poco conosciuti e in gran numero inediti, sull’ambiente formatosi e cresciuto attorno a lui ed alcune altre splendide figure di laici e sacerdoti nella Cracovia del trentennio 1950-‘70, in pieno regime comunista.

“Crescono improvvisamente dall’amore…” – questo il titolo, e prosegue: “… e poi di colpo adulti/ tenendosi per mano vagano nella grande folla/ (cuori catturati come uccelli, profili sbiaditi nel crepuscolo)/ So che nei loro cuori pulsa l’intera umanità”: passo tratto da una composizione poetica dello stesso Wojtyła del 1958, poco prima della nomina a vescovo ausiliare. Due giovani che si tengono per mano, tenersi per mano ed andar in mezzo alla gente per mostrare agli altri la propria gioia, fare l’esperienza spirituale di non essere soli ma di poter condividere con qualcuno.

Scrive Giovanni Paolo II in Varcare le soglie della speranza: “I giovani […] sanno di dover vivere per gli altri e con gli altri, sanno che la loro vita ha senso in quanto diventa un dono gratuito per il prossimo. Da qui hanno origine tutte le vocazioni”. Egli stesso è passato per questa esperienza interiore, mistica, che l’ha condotto ai giovani, alle coppie, perché tutto “ha origine” lì, in quel dono gratuito.

A partire da queste premesse, il nostro Relatore ha sviluppato un percorso su sei punti:

  1. Camminare insieme: nel 1951 don Karol lascia l’incarico di vicario parrocchiale per l’attività accademica, addentrandosi in un’esperienza culturale ed intellettuale mai disgiunta dall’intima spiritualità. Egli ha uno speciale carisma nel saper trasmettere tutto questo ai suoi studenti: camminare e gettare ponti, o meglio scoprire che i ponti già ci sono, perché l’uomo stesso è ponte attraverso il quale passa l’esperienza di Dio. In una lettera dell’8 gennaio 1997, Giovanni Paolo II scrive ai suoi amici: “[…] La società sapeva di essere minacciata sul terreno più sensibile, sul terreno delle proprie convinzioni, sul terreno della libertà della coscienza e quindi manifestava questo sentimento. Si potrebbe dire che la giovane generazione stava nella prima fila di questa lotta per l’anima della Nazione polacca […] È una storia dei cammini su cui ci incontravamo. Queste strade individuali si collegarono e proprio così nasceva l’ambiente”. AmbienteŚ́rodowisko – a carattere familiare, relazionale, comunionale, cosa che fa la diversità rispetto alla proposta di vita del regime. E lo stesso don Karol ne sente il bisogno, semplicemente perché è un pastore e cerca perciò di stare in mezzo alla gente. Wujek – “lo zio”, così lo chiamano per eludere la sorveglianza della polizia – indirizza i suoi giovani all’impegno nella vita parrocchiale, facendo centro nella Collegiata di Sant’Anna dove è parroco il suo amico Jan Pietraszko, un altro uomo di Dio. Dai distinti cammini che si incontrano – osserva Kwiatkowski – nasce l’ambiente, in cui non è escluso lo scontrarsi, mentre la cosa peggiore che possa capitare è di oltrepassarsi ignorandosi.
  2. Un cammino semplice, fatto di escursioni, teatro, cinema, feste con canti e balli, vacanze. Nella stessa lettera del ’97, il Papa ormai avanti negli anni ringrazia i suoi amici per tutte le opportunità che gli hanno offerto: “[…] Senza di voi non avrei mai visitato e quindi non avrei mai amato ancora di più tantissimi luoghi che appartengono alla ricchezza della mia Patria; non avrei mai assimilato tutta questa ricchezza in maniera molto semplice e al contempo molto autentica. Per questo fu necessaria la vostra giovinezza, le vostre capacità che permisero a me – uno che non fu molto più grande di alcuni di voi – di sentirmi di nuovo giovane”, dove risuonano le parole pronunciate alla GMG del 2000 a Tor Vergata: “Se vivi con i giovani, dovrai diventare anche tu giovane”.
  3. Un cammino pasquale: alla base Ś́rodowisko ha sempre una comunione di preghiera, che culmina nell’Eucaristia, celebrata ovunque sia possibile. È l’esperienza di comunità che consente di comprendere a fondo l’Eucaristia in cui trova risposta il desiderio di Cristo di stare con i propri amici, ed è per questo che se l’Eucaristia si lascia finire lì, nel momento della celebrazione – è un altro inciso del Relatore – “è il più grande sacrilegio”. Ancora parole del giovane vescovo Karol in un corso di esercizi: “La preghiera è un bisogno del nostro essere e una ragione della nostra esistenza. L’uomo deve diventare figlio di Dio. Dio porta la grazia, invece da parte nostra ci vuole, oltre alla preghiera, un atto morale perché la grazia si possa consolidare in noi. La preghiera richiede lo spazio interiore per Dio”.
  4. Un cammino anche a distanza: nell’archivio diocesano di Cracovia Kwiatkowski ha rinvenuto circa tremila lettere indirizzate all’Arcivescovo Karol Wojtyła, per il quale ormai i momenti di cammino fisicamente insieme ai suoi giovani si sono fatti rari. Sul retro dei fogli si possono leggere brevi appunti autografi, una bozza per la lettera di risposta, immancabile se pur breve e attenta alle vicende umane oltre che spirituali degli amici, in cui la firma – anche da Papa – è sempre “Wujek”. Tra le tante, una di particolare significato: “La gente ama pensare più o meno questo: Wujek vorrebbe far maritare tutti quanti. Penso, però, che questa sia un’immagine falsa. Il problema più importante è davvero qualcos’altro. Vedi – l’uomo vive soprattutto per l’amore. La capacità di amare costituisce la parte più profonda di una personalità – non senza ragione è questo il comandamento più grande – non una grande capacità intellettuale, bensì proprio la capacità dell’amore autentico, che consiste in un certo uscire di sé, in un certo approvare l’altro e gli altri, nel dedicarsi alla realtà dell’uomo, degli uomini e, prima di tutto, a Dio. Il matrimonio ha senso se dà l’opportunità di un amore del genere, se evoca la capacità e, in un certo senso, la necessità di amare così, se tira fuori dal guscio dell’individualismo (di vario genere) e dell’egocentrismo […]”.
  5. Progredire nell’amore: lo scambio tra il Pastore e i suoi amici si fa sempre più profondo e ricco di frutti. Il libro Amore e responsabilità, dal vescovo Wojtyła dato alle stampe nel 1960, nasce dalle sue lunghe conversazioni con una delle coppie di sposi che più gli sono vicine, Jerzy e Danuta Ciesielski (come per Jan Pietraszko, anche per Jerzy Ciesielski, leader dell’ambiente tragicamente scomparso nel 1970, è in corso la causa di beatificazione): “Caro Jurek e Cara Danusia, mi permetto di ricordare quella conversazione sul treno per Ptaszkowa, il cui coronamento è proprio questo libro. E voi stessi sapete meglio che cosa in più esso coroni e a che cosa introduca. Wujek”. Di ciò che il futuro Giovanni Paolo II ha maturato nello scambio con i laici è oggi possibile rinvenire tracce evidenti nei documenti del magistero suo pontificio e della Chiesa intera. A dimostrazione di questo insospettato e consolatorio “contributo” dei laici, Kwiatkowski sottolinea la stretta parentela di alcuni appunti di Jurek e di Wujek con passaggi della Familiaris Consortio e persino della costituzione conciliare Gaudium et spes, al cui schema il vescovo Wojtyła, in modo particolare per la parte riguardante il Matrimonio e la Famiglia, diede a suo tempo un sostanziale apporto.
  6. Camminare nel tempo: “Per voi Wujek sarà sempre Wujek” – ha promesso ai suoi in un incontro già vescovo, nel 1959. E così scrive Giovanni Paolo II, appena pochi giorni la sua elezione: “Wujek rimane. E resta anche Środowisko di Wujek. Tocca a tutti noi pensare come fare perché i contatti, facili da mantenere a Cracovia, non si spengano sulla linea Cracovia – Roma” (telegramma del 20 ottobre 1978) e “Giacché scrivete che ho cambiato il kayak per la Barca, vedete che ora ho bisogno di più rematori, di più forza spirituale, che spero di ricevere da voi anche tramite le vostre preghiere. Conto su questo… Wujek” (lettera del 27 ottobre 1978).

Crescono improvvisamente dall’amore,
e poi di colpo adulti
tenendosi per mano vagano nella grande folla –
(cuori catturati come uccelli, profili sbiaditi nel crepuscolo).
So che nei loro cuori pulsa l’intera umanità.
K. Wojtyła, Profili di Cireneo, II

(le foto sono pubblicate per gentile concessione del Relatore)

Il biotestamento

Il biotestamento - Licia Ferrari

Non “bio” perché senza conservanti ma perché riguarda la nostra vita. Ma nemmeno “testamento”, che uno fa per quando sarà morto, mentre questo lo fa per quando è ancora vivo.

Nell’incontro degli Inventori di sabato 22 novembre Licia Ferrari ha indicato alcune tracce di approfondimento in preparazione al convegno che si terrà il prossimo giovedì 27 ottobre a cura della Sezione di Reggio Emilia dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani sul tema appunto: “Il Biotestamento. Quale normativa“.

Oltre la corretta individuazione della natura d’un simile documento, la problematica più rilevante – e scottante, per le implicazioni di carattere etico, giuridico  e sociale – riguarda i soggetti coinvolti ed i limiti di applicazione delle disposizioni in esso contenute. Già, si tratta del DAT = Disposizioni (o dichiarazioni, direttive) Anticipate di Trattamento, in cui l’interessato, ben lucido e vitale, lascia detto come lo si dovrà trattare allorché lucido e vitale non sarà al punto da essere classificato come malato terminale. E qui si inserisce il tema dell’eutanasia, cioè della “buona morte”, con tutto l’intrico dei trattamenti medici che comunque al paziente son dovuti e di quelli che configurano un accanimento terapeutico o, peggio ancora, una sperimentazione senza remore morali.

La letteratura in argomento è assai vasta e complesso l’iter di una normativa che i nostri parlamentari da tempo si palleggiano alla ricerca invero ardua di un’intesa il più possibile trasversale che metta d’accordo i più fieri sostenitori di una libertà individuale senza limiti e gli irriducibili difensori dell’inviolabilità della vita umana.

Di tutto questo ha parlato con ricchezza di particolari Licia Ferrari e parleranno gli autorevoli relatori chiamati al convegno. Consigliamo in ogni caso la previa lettura di alcuni dei più significativi documenti presenti sul web, a cominciare da quelli del Comitato Nazionale di Bioetica.

Il biotestamento - Quale normativa - Locandina
Il biotestamento – Quale normativa – Locandina

05/11/2011 – “Crescono improvvisamente dall’amore…” con Przemysław Kwiatkowski

Przemyslaw Kwiatkowski
Przemyslaw Kwiatkowski

Przemysław Kwiatkowski è un giovane sacerdote polacco che, dopo alcuni anni di attività pastorale nella sua diocesi di Gniezno, per il perfezionamento degli studi teologici è approdato a Roma dove al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II ha conseguito nel 2010 il dottorato in teologia del matrimonio e della famiglia con una tesi dal titolo “Lo Sposo passa per questa strada… La spiritualità coniugale nel pensiero di Karol Wojtyła. Le origini. Attualmente è presso il medesimo Istituto segretario della Cattedra Karol Wojtyła (la cui mission – sotto la guida del prof. Stanisław Grygiel – è l’approfondimento della figura e del pensiero del grande Pontefice)  e docente incaricato per corsi e seminari incentrati sull’antropologia di Karol Wojtyła e sulla dottrina sociale della Chiesa per quanto attiene la persona, il matrimonio e la famiglia.

Il prof. Kwiatkowski è dunque un appassionato e profondo studioso di Giovanni Paolo II, in particolare riguardo alla sua opera di pastore nell’“ambiente” – ́rodowisko – universitario di Cracovia, quando attorno alla sua persona si era coagulato un vivacissimo gruppo di giovani famiglie. Scrive in proposito il prof. Grygiel: “Non comprenderemo Karol Wojtyła, il suo servizio vescovile e petrino senza entrare nella storia della tradizione dell’alleanza della Promessa divina e della speranza umana su quella terra sulla quale i Polacchi creavano – e tuttora creano – la cultura della fede nell’uomo, nella sua libertà, e della fede in Dio, la cui libertà si identifica con l’amore misericordioso. Da questa cultura proviene la loro identità nazionale anche se possono di certo trovarsi altre componenti, dal momento che nessun popolo è un’isola staccata dagli altri. La libertà dei Polacchi veniva continuamente minacciata dall’ovest e dall’est, e in certi tempi anche dal sud e dal nord. Profondamente inserita nella loro cultura, la Chiesa condivideva con loro i momenti più difficili. Essa custodiva la sua presenza soprattutto nei matrimoni e nelle famiglie, che erano le dimore in cui gli uomini, affidati l’uno all’altro, potevano sentirsi se stessi. È dall’esperienza della libertà nei matrimoni e nelle famiglie che è nata la Regola per il gruppo delle coppie di sposi «Humanae vitae» di cui si sapeva qualcosa, a cui però non è stata dedicata una dovuta attenzione. Su questa Regola don Przemysław Kwiatkowski ha fondato il lavoro sulla sua tesi di dottorato, che mostrerà, ne siamo sicuri, il valore antropologico del testo e la sua importanza per la vita spirituale di sposi” [1].

Un tema sicuramente inserito nella strada dell’anno sociale che stiamo percorrendo: “Stare dentro ai tempi nuovi”.

Non anticipiamo oltre. Non ci resta che incontrarci sabato 5 novembre 2011 alle ore 16,30 nei locali dell’Oratorio San Giovanni Bosco in Sant’Ilario d’Enza per ascoltare e dialogare con Przemysław Kwiatkowski:

Crescono improvvisamente dall’amore…

Karol Wojtyła e l’Ambiente di Cracovia, un’esperienza spirituale


[1] S. Grygiel, Humus religioso e culturale di Cracovia, in: S. Grygiel – P. Kwiatkowski (a cura di), L’amore e la sua regola, Cantagalli, Siena 2009, p. 22.

Appunti di viaggio – 2

Manoppello - Il Volto Santo
Manoppello – Il Volto Santo

Ogni viaggio ci fa rivivere qualcosa della nostra nascita, ne ripropone gli elementi. Per questo è così vitale e bello viaggiare, è come nascere di nuovo, abbandonare un luogo limitato e uscire verso l’illimitato, tagliare anche solo temporaneamente i nostri legami, uscire dal nostro piccolo guscio ed entrare nel grande mondo, essere trasformati in qualcosa di nuovo, lasciare le sicurezze e affidarsi ad altri incontri, dipendere da sconosciuti (Ermes Ronchi [1])

Manoppello è un mucchietto di case ai piedi della Maiella, la montagna d’Abruzzo “tutta ‘n fiore” che “ppare fatta pe l’ammore”, ma oltre le case c’è un santuario e nel santuario trovi il Volto Santo, e qui ti fermi e contempli, felice del tuo viaggio nella calura estiva.

L’icona acheropita è identicamente impressa su entrambi i lati di un telo fatto di prezioso quanto fragile bisso di mare, totalmente trasparente alla luce, i grandi occhi aperti ti fissano, la bocca semiaperta, una rada barba bifida, chiarissimi i segni del supplizio, perfettamente sovrapponibile senza sbavatura alcuna al volto dagli occhi chiusi della Santa Sindone torinese. Comincia il mistero: cos’è, perché è qui, che storia ha questo mandylion e come mai sarebbe rimasto quasi sconosciuto se Benedetto XVI non gli avesse restituito fama con il suo pellegrinaggio – il primo di un papa – dell’1 settembre 2006?

A Manoppello il velo del Volto Santo fa la sua comparsa verso la fine del XVI secolo, affidato a un maggiorente del luogo da uno sconosciuto pellegrino subito dissoltosi nel nulla, e dopo varie peripezie nel 1638 trova ricetto e pace nel nuovo convento dei cappuccini – l’attuale santuario – dal quale son tre secoli che esce due volte all’anno per una solenne processione, che ci sia torrido sole o pioggia battente non importa: il bisso resiste, serrato tra due lastre di vetro.

Nel 1527 c’era stato il famoso sacco di Roma e con il sacco era scomparso dalla basilica vaticana il velo della “Veronica” – occhi aperti – gelosamente custodito dai canonici di San Pietro che ne avevano fatto oggetto di grande venerazione dei fedeli nonché fonte di generose offerte. Un filo d’oro pare collegare direttamente la reliquia, attraverso Costantinopoli e Camulia in Asia Minore, al Santo Sepolcro di Gerusalemme, ove con altri veli funebri aveva protetto il corpo di Gesù.

Ora, a portare il velo trafugato da Roma a Manoppello potrebbe esser stato proprio uno dei comandanti delle truppe d’invasione che per i suoi guerreschi meriti si era guadagnato titolo nobiliare e annessi possedimenti in Abruzzo. A Roma i canonici si guardaron bene dall’accusare il colpo, un falso della “Veronica” – riprodotto ahimé cogli occhi chiusi – andò a rimpiazzare in San Pietro quella vera nel reliquiario custodito in uno dei quattro giganteschi pilastri della crociera – quello appunto detto “della Veronica” – che sostiene la michelangiolesca cupola e di lì, da altezza sufficiente a confondere i particolari, continuò nei secoli ad esser esibita una volta all’anno alla sottostante trepida folla di romei. Così si racconta e così riporto… ma non si può fare a meno di osservare come da nessuna delle parti coinvolte, né i buoni frati di Manoppello né i bravi canonici romani, ci sia mai stata gran spinta a gettar luce sulla storia. In una suntuosa mostra – “Il volto di Cristo” – allestita a Roma per il Giubileo del 2000, fu possibile ammirare la trecentesca vuota cornice ed alcuni volti dagli occhi chiusi dipinti nel ‘600, ma non il mandylion di Manoppello.

Aldilà dell’enigma, l’incontro con quel Volto conosciuto, come un “abbandonare un luogo limitato e uscire verso l’illimitato”, lascia il suo segno.

Per chi volesse approfondire, segnalo un ottimo saggio: S. Gaeta, L’enigma del Volto di Gesù. L’avventurosa storia della Sindone segreta, Rizzoli 2010 (ng)


[1] E. Ronchi, Il futuro ha un cuore di tenda, Romena 2010, 38.

Manoppello - Il Santuario del Volto Santo e la Maiella
Manoppello – Il Santuario del Volto Santo e la Maiella

22/10/2011 – “Il biotestamento. Quale normativa” – Incontro di preparazione con Licia Ferrari

Come indicato nella locandina qui sotto, il prossimo giovedì 27 ottobre si terrà a Reggio Emilia, con l’intervento di autorevoli relatori, un convegno su un tema di estrema scottante attualità – il testamento di fine-vita – che investe ad un tempo problematiche di carattere etico, giuridico, sociale.
Inventori di strade segnala l’evento e ne incoraggia la partecipazione, che sarà preceduta da un incontro preparatorio in cui l’avv. Licia Ferrari, Presidente del Circolo e membro del Consiglio Direttivo della locale Sezione dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, oltre che esporre l’argomento nelle sue linee essenziali, si renderà disponibile al dibattito.
Siamo dunque tutti invitati all’appuntamento di sabato 22 ottobre alle ore 21, nei locali dell’Oratorio S. Giovanni Bosco in Sant’Ilario d’Enza.

Il biotestamento - Quale normativa - Locandina
Il biotestamento – Quale normativa – Locandina

Appunti di viaggio – 1

Non so spiegarmi, se non come effetto di una paura, paura del rischio, della fatica, del sacrificio, questa declamazione della vita come tranquillità immobile, salva da spaesamenti. Oggi come ieri, ma forse ancor più di ieri, siamo chiamati allo spaesamento, e dunque fuori dalla prigione di un’unica immagine, di un unico paese. Ma non è forse questo l’“incipit”, il passo originario fondativo della fede? Primo passo di colui che ci è padre nella fede, Abramo? “Esci!”. «Esci dalla tua terra e va’». Uscita di viaggio. Verso lo sconosciuto.

Angelo Casati [1]

Il viaggio, avventurarsi senza paure su sconosciute strade, è connaturale all’uomo, radicato nel suo DNA al punto di fondersi con la memoria religiosa delle origini. C’è sicura propensione al viaggio in chi si fa inventore di strade ed è raro che al viaggiatore venga negato il premio della scoperta.

* * *

Questi appunti di viaggio, un viaggio appena compiuto sul finire dell’estate, si limitano ad alcuni luoghi tra i tanti toccati, luoghi capaci di suscitare emozioni forti, ciascuno dei quali da solo ricompensa la fatica di migliaia di chilometri percorsi immersi in paesaggi sorprendentemente affascinanti.

Vilnius, la capitale della Lituania, vale da sola il viaggio. E nel cuore della città la Porta dell’Alba – Aušros Vartai – l’unica rimasta intatta dell’antica cinta difensiva, con la miracolosa icona della Santa Madre di Dio, la “Stella del Mattino”, il bruno volto dolce e melanconico e le fini mani incrociate, le sole parti lasciate scoperte dalla preziosa riza d’argento che ricopre il dipinto del XVII secolo. L’icona sovrasta l’altare d’una cappella edificata sopra il voltone della porta e attraverso un’ampia finestra è ben visibile dalla strada sottostante. Così che alle innumerevoli persone che – molte in ginocchio – salgono la ripida scala che porta alla cappella, si aggiungono nell’arco della giornata centinaia di passanti che si fermano, a volte a lungo, per dare il saluto a Maria. E sono d’ogni confessione – cattolici, ortodossi e uniati – poiché cade davanti a Lei ogni distinzione.

Cosa colpisce il visitatore “straniero”? Il silenzio, la devozione profonda, i volti concentrati nella preghiera, spesso rigati di lacrime, specie negli anziani. Volti e lacrime che raccontano tutte le sofferenze d’un popolo che fin nella sua storia più recente ha conosciuto invasioni e violenze, senza mai flettere nella propria dignità e senza mai cessare di confidare nell’aiuto della Santa Madre di Dio. La cui icona – val la pena notarlo – tra eccidi, distruzioni e saccheggi nessun barbaro invasore ha mai osato toccare.

Šiauliai, una decina di chilometri a nord-ovest, sulla strada che porta al confine con la Lettonia, la celeberrima Collina delle CrociKrižių Kalnas – simbolo attraverso i secoli dell’identità nazionale e religiosa del popolo lituano. Ci si arriva con un rettifilo pedonale di qualche centinaio di metri che ne scopre poco a poco la vista: sotto un cielo di azzurro cristallo che fa da solo spettacolo cominci a intravedere le croci, e sono sempre di più, a ricoprire il pur modesto rilievo di terra e a largo raggio tutto l’intorno, e quando arrivi ai piedi della “collina” ti accorgi che sono migliaia – 50.000 dicono – di ogni foggia, materiale e dimensione, fittissime, incastrate, sovrapposte, una selva dal lieve stormire metallico al primo levar di vento.

I lituani presero a piantarle dopo il 1830, segno di silenziosa tenace resistenza all’oppressione zarista. Il numero delle croci crebbe di continuo e le messe celebrate ai piedi della collinetta significavano sempre più lo spirito libertario nazionalista, anche dopo l’avvento nel 1940 dei nuovi padroni dall’URSS. I sovietici, allergici a rivendicazioni nazionaliste e religiose di qualsiasi tipo, provvidero più volte a spianare tutto coi bulldozer bruciando le croci di legno e fondendo quelle di ferro, ma ogni volta croci e collina ostinatamente risorgevano. Dal 1991 la Lituania è di nuovo indipendente e la Collina è divenuta struggente simbolo di libertà dove gente d’ogni paese e confessione religiosa viene a piantare la sua croce alla quale affida, grande o piccola che sia, il segreto dei voti che si porta in cuore.

Riga, capitale della Lettonia, è una città moderna, effervescente di traffici e di stimoli culturali, che cerca di aumentare alle spalle la distanza ideale dagli anni del regime sovietico. Il suo cuore resta pur sempre nella Vecriga, la Città Vecchia, un piccolo pittoresco concentrato rettangolare di chiese, case e palazzi delimitato sui lati lunghi dal grande fiume Daugava e da un romantico canale. Ma quello che sembra segnare il vero confine tra città vecchia e nuova, simboleggiando il passaggio tra il passato e il futuro che ti attende, è il Monumento alla LibertàBrīvības piemineklis – che svetta coi suoi 42 metri al centro della larga strada che dalla Vecriga porta appunto nel nuovo. Costruzione recente – risale al 1935 – e francamente brutta ma il cui significato va ben oltre l’occasione – la guerra per l’indipendenza nazionale del 1918-20 – per assurgere a simbolo di rifiuto d’ogni asservimento, specie dopo la riacquistata libertà nel 1991 della piccola repubblica baltica.

E quando percorrendo le stradine e le piazzette della Vecriga ti imbatti di frequente in anziane donne segnate in viso ma decorosamente vestite, a tendere la mano per un’elemosina, ti rendi conto come più d’una generazione sia stata derubata della vita e – specie quando subito dopo incroci gruppetti di giovani per contrasto chiassosi di speranza – ti auguri con tutto il cuore che questo non abbia ad accadere mai più almeno nella vecchia Europa, per troppi secoli vittima della mortifera libido del potere.

Beniaminów, un paesino di duecento anime a darcela tutta, sperduto nella cintura nord-ovest di Varsavia, dove ti avventuri solo perché sai che esiste e sai che racchiude qualcosa di importante. Appena oltre l’abitato, dove comincia una grande cupa foresta, nascosti da una fitta vegetazione interrotta da radure sabbiose, si trovano i resti di Fort Beniaminów, una rete senza fine di cunicoli sotterranei in cemento armato, areati dall’alto con lunghi camini che spuntano ordinati in teutoniche file sul terreno sovrastante. Il complesso ha forma di pentagono irregolare, con il lato più lungo che misura 400 metri – in buona parte opprimente frontone d’ingresso in calcestruzzo – e una superficie complessiva di un centinaio di ettari. Impressionanti le dimensioni, impressionanti lo stato di abbandono e le lugubri risonanze di guerra. Ma ancor più t’impressiona il fatto che lì sono stati forzati al lavoro di costruzione decine di migliaia di prigionieri ridotti in schiavitù. Stiamo parlando del 1800, quando la Polonia era sotto il regime zarista. Ma stiamo parlando anche del secolo scorso, quando nel ‘17 vennero lì internati i patrioti polacchi resistenti alla Germania imperiale e quando nell’ultimo conflitto mondiale, tra il 1941 e il ‘44 i nazisti vi rinchiusero prigionieri d’ogni nazionalità.

È lì forse, in superfice, o comunque in immediate vicinanze di cui è stata cancellata ogni traccia, che esisteva anche il lager denominato “Stammlag 333” dove dopo l’8 settembre 1943 confluirono in gran numero gli internati militari italiani che vi restarono fino al marzo ‘44, quando sotto la pressione sovietica da est i nazisti furono costretti a trasferire i loro detenuti in Germania. Del lager di Beniaminów si sa che prima degli italiani era riservato ai russi, al più infimo grado della scala concentrazionaria, che a decine di migliaia vi trovarono la morte per i maltrattamenti, la fame  e il tifo petecchiale.

(vm)

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A questi appunti di viaggio assegniamo il numero 1, e se altri han da raccontare di loro mete, “uscite di viaggio, verso lo sconosciuto”, saremo ben lieti di proseguire nell’elenco: basta inviare il proprio contributo via mail a <info@inventoridistrade.com>.


[1] A. Casati, Le paure che ci abitano, Romena 2011, 26.